Il lavoro Attraverso il giardino nasce insieme a Chiara Arturo come preludio del più ampio progetto Vicinanze.
E’ stato esposto nella mostra Attraverso il giardino. Due riflessioni naturali ai Giardini Ravino di Ischia e nella mostra Vicinanze. Studi per un’idea di attraversamento alla Off Gallery di Napoli, entrambe curate da Marcello De Masi che ha scritto il bellissimo testo critico che segue.
LA MENTE NUDA E IL CORPO ESPOSTO
ATTRAVERSO IL GIARDINO
Cerco di raggiungere il mio silenzio, perché nel giardino, basta essere, e ciò richiede silenzio. […] La presenza in giardino presuppone la mente nuda e il corpo esposto. Solo così è possibile arrischiare il sogno.[1]
Così, con questa predisposizione, immagino anche le due autrici nei loro attraversamenti.
Leggo le parole del poeta Umberto Fiori e ritrovo ciò che ho visto, ciò che ho guardato. Non gli oggetti o i soggetti ma lo spirito, il sentimento, l’intenzione, l’intuizione:
[…] Allora questi tre sedili al sole / e i cespugli pieni di fiori / si lasciano vedere come sono.
Chiari, sono, e diventano / sempre più chiari. / Anche le piante: chiare foglia per foglia. /
E le ombre nell’erba esatte, / e nel sentiero i sassi, uno per uno, / fatti così, così,
e sempre più precisi, finché di colpo / non assomigliano a niente: / ci sono, sono qui davvero. /
Si sente tutta la salvezza, allora, / tutto il pericolo. […][2].
Nei versi come nelle immagini, ciò che lo sguardo incontra è riconosciuto, c’è, è qui davvero; gli si dà tempo, lo si guarda, lo si rappresenta, lo si chiama per nome: così esisterà[3].
Nelle immagini di Chiara e Cristina, la salvezza ed il pericolo sono lì: vetri stanchi lasciano cadere i propri frammenti o più semplicemente si scostano, ruotano e permettono scambio d’aria e di luce; superfici gentili concedono la trasparenza per attraversarle ed immaginare figure altre; recinsioni timide e segni silenziosi dividono mentre indietreggiano alla vista; ostacoli, di loro natura testardi, si arrendono al desiderio della luce ed alla forza vitale di una radice o di un semplice germogliare; un sentiero garbato è lì a ricordare la discontinuità, per non illudere; decisi tessuti indirizzano l’eleganza e la danza del fiorire, o sembrano raccontare di costrizioni, oppressioni e soffocamenti; corde, sicuramente anziane, sagge e tenaci ma a volte stanche, sono guide e consigliere di piante strabordanti; variazioni su un tema appaiono, come musica, sorridenti ma serie, in campiture omogenee, indicano il fuori campo, lo rivelano come esso è, dov’è, cioè ovunque, in tutte le direzioni, da lui si nutrono; indizi divertiti svelano le illusioni; materie curiose, sasso o pianta, si riposano, o fanno finta, dopo aver visitato luoghi non loro, all’ombra di un telo, all’ombra di un albero; due superfici si affrontano, si incontrano, in un punto si confondono, è amore e battaglia insieme.
Se è vero che il giardino, ovunque nel mondo, significa al contempo il recinto ed il paradiso[4], è proprio attraverso le sue soglie che inizia la ricerca delle due autrici. Che sia confine, limite, divisione o frontiera, il passaggio viene rimesso in discussione: mostra le sue fragilità, le sue ambiguità, viene spezzato, oltrepassato, eppure c’è, resta quasi necessario, anzi chiama l’attenzione, interroga per chiedere una reazione, un intervento, nel tempo: a volte anche lui cerca la sua pace, il suo silenzio. Necessita di una cura. Mostra la complessità attraverso lo scambio delle materie che si incontrano, si toccano, mercanteggiano scambiandosi vita e morte.
D’altronde è coerente, perché qui interviene l’eccellenza dell’artista: egli esercita la sua arte nel trattamento dei limiti.[5]
Il loro non è un giudizio, ma un processo di conoscenza. E proprio la fotografia sembra il mezzo più adatto a porsi certi interrogativi e viaggiare attraverso il rapporto tra uomo e natura, l’idea di soglia in tutta la sua complessità ed il giardino; non a caso Robert Adams riferendosi all’etimologia di giardino e paradiso (anche riproposta da Kenneth Clark) può affermare: credo esprima bene ciò che il fotografo vede attraverso il mirino del suo apparecchio prima di premere l’otturatore. La sua visione è quella di un viaggiatore che osserva il paesaggio attraverso il finestrino, una visione costruita sulla geografia locale, ma immobile e chiarificatrice.[6]
I recinti e le soglie che qui appaiono tengono insieme ma lasciano anche comunicare, delineano e limitano ma permettono anche uno scambio, come nell’inquadratura tra ciò che compare in campo e il non visibile del fuori campo, come nelle soglie del tempo: ed anche questo è coerente perché il significato esoterico della soglia proviene dalla sua funzione di passaggio fra l’esterno (il profano) e l’interno (il sacro). Rappresenta simbolicamente sia la separazione sia la possibilità di un’alleanza, di un’unione, di una riconciliazione. […] La soglia è la frontiera del sacro, che partecipa già alla trascendenza del centro.[7]
Evidentemente sia il concetto di soglia che il suo legame con la fotografia sono ben rimessi in gioco dalle parole di Luigi Ghirri: per qualcuno, come ad esempio per Norberg-Schultz, studioso dell’architettura e dell’ambiente in generale, la soglia identifica il punto di passaggio tra il mondo interno e il mondo esterno. La parola soglia non significa soltanto la linea di passaggio tra la strada e l’interno della casa, ma viene utilizzata anche in senso metaforico, per indicare un confine tra l’interno, quello che pensiamo, quello che vediamo, quello che possiamo vedere, quello che dobbiamo vedere e quello che invece vediamo nella realtà e che determina un’osservazione comune, cioè tra il nostro interno e l’osservazione del mondo. Questo punto di equilibrio tra mondo interno e mondo esterno in fotografia io penso di averlo identificato con l’inquadratura.[8]
Così ad ogni passaggio, ad ogni passo, fatto da una parte all’altra di una soglia, immagino di guardare e comprendere qualcosa in più, mi accorgo di ciò che c’è; sono e mi ritrovo nel giardino del loro sguardo, del loro interno, magicamente nel giardino del mio interno, nel giardino che è lì davanti a me nell’immagine e nella realtà che aspetta di essere visitata, nel giardino dell’inquadratura, nel giardino dell’invisibile che si manifesta nel visibile: forse questo è parte di quello che Kenneth Clark aveva in mente quando scrisse che “il giardino incantato … è uno dei più costanti, diffusi, e confortanti miti dell’umanità”[9].
Napoli, Luglio 2018
Marcello De Masi
[1] Gilles Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale, p. 16-17, Quodlibet, Macerata, 2013
[2] Umberto Fiori, Giardini, in Poesie 1986 – 2014, p. 29, Arnoldo Mondadori Editore S.p.a., Milano 2014
[3] A partire da Gilles Clément, Op. cit., p. 58, Quodlibet, Macerata, 2013
[4] Ibidem, p. 15 in nota l’autore specifica: il termine «giardino» viene dal tedesco garten, che significa «recinto». Il termine «paradiso», dal latino paradisus e dal greco paradeisos, deriva a sua volta dal persiano pairidaeza, «recinto» (da pairi, «intorno», donde nascerà il peri greco, e daeza, «strisciante»)
[5] Ibidem, p. 41
[6] Robert Adams, La Bellezza in Fotografia, p. 10, Bollati Boringhieri, Torino, 2010
[7] Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, BUR – Rizzoli, Milano, 2010
[8] A cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro, Luigi Ghirri – Lezioni di fotografia, p. 152, Quodlibet, Macerata, 2011
[9] Robert Adams, I hear the leaves and love the light, p. 5, Nazraeli Press, Tucson, 1999