Intervista Italia che cambia
Una riflessione sulle sfumature femminili dell’arte italiana, in particolare della fotografia, che a volte può trasformarsi in un vero e proprio strumento sociale. La facciamo con Cristina Cusani, artista e fotografa napoletana. Cristina è madre, artista in carriera e libera professionista. Ma soprattutto è una moderna Persefone che è riuscita a vivere della sua passione e a trovare spazio per la sua arte, proprio dove di spazio, soprattutto per le donne, ce n’è davvero poco. Le sue non sono solo fotografie, piuttosto opere dal molteplice valore, foggia e bellezza.
«A vent’anni ho scelto di studiare fotografia perché volevo viaggiare e pensavo di farne un lavoro diventando una fotoreporter. Sono partita per il Sudamerica con la macchina a tracolla e ho capito subito che non riuscivo a fotografare le persone», racconta Cristina Cusani ricordando i suoi esordi. «Ho tentato ancora per anni, finché non ho finalmente accettato il fatto che non sarei stata una fotoreporter, ma che potevo essere un altro tipo di fotografa».
Nella professione Cristina ha trovato la sua strada con l’architettura di interni. Mentre studiava all’Accademia di Belle Arti si rendeva sempre più conto che nei suoi lavori le piaceva tantissimo sperimentare, sia in fase di scatto che in camera oscura, e che non utilizzava mai la fotografia in maniera classica. «Così ho iniziato a distinguere il mio percorso professionale come fotografa di architettura di interni dal mio percorso di artista visiva che utilizza il mezzo fotografico».
Dopo questa importante distinzione tra professione e arte, come hai proseguito?
Nel 2012, subito dopo l’accademia, sono stata selezionata da Antonio Biasiucci per frequentare il suo Laboratorio Irregolare, un’esperienza formativa molto importante, grazie alla quale ho acquisito un metodo di ricerca e capito l’importanza del confronto. Il laboratorio vuole trasmettere un metodo che eserciti ad una costante azione critica sul proprio lavoro dando grande valore all’approfondimento e spingendo a guardarsi dentro. Anche in questo caso il risultato del laboratorio è stato un lavoro non puramente fotografico, un abbecedario formato da immagini e parole.
Nel 2015 sono stata invitata a partecipare a una residenza insieme ad altri artisti e per la prima volta mi sono confrontata con pittori, scultori, videomaker e performer. Questa cosa mi ha liberato dai limiti imposti dal mezzo fotografico e mi ha aperto infinite altre possibilità. Ho capito che la fotografia per me è solamente un mezzo per esprimermi e che non avevo mai avuto un approccio da fotografa.
Come si incontrano e come proseguono insieme, se ciò accade, il tuo percorso professionale con quello artistico?
Il lavoro professionale e quello artistico si sono incontrati e quasi senza rendermene conto ho portato avanti una ricerca durante le sessioni fotografiche che facevo per l’agenzia immobiliare per cui lavoravo. Poi la professione ha preso il sopravvento e non avevo tempo di portare avanti i miei progetti. Ho messo da parte il mio percorso artistico e non ho fatto quasi nulla per due anni, scrivevo solo sul mio quaderno tutto quello che mi veniva in mente. È stato un momento di passaggio fondamentale che mi ha permesso di prendere consapevolezza sulla direzione che stavo prendendo.
Hai mai avuto un momento di crisi nel tuo percorso?
Sì, dopo questa fase di intenso lavoro professionale non avevo alcuna voglia di fotografare, così ho iniziato a lavorare sulle foto fatte da altri: foto di famiglia, immagini diagnostiche, retro di vecchie fotografie e ho capito che il punto non era la fotografia, non lo era mai stato. Finalmente mi sono spogliata dell’immagine di me che ormai mi stava così stretta, ma che mi ostinavo a portare nonostante la fatica. È stato liberatorio e ovviamente spaventoso. A volte sono ancora terrorizzata, ma questa cosa mi ha permesso di tornare a fotografare quando mi va, quando lo sento.
C’è una filosofia dietro le tue opere?
Della fotografia mi ha sempre interessato il concetto di impressione, la luce che entrando in contatto con la pellicola o con il sensore digitale li impressiona lasciando la traccia dell’immagine che ha davanti. Man mano che andavo avanti nella mia ricerca, mi sono accorta che questo in qualche modo era anche il tema di molti miei progetti. Lavoro sempre sul residuo, su quello che resta, la traccia, la memoria, la storia.
Nella mia ricerca seguo due strade: da un lato sento la necessità di indagare la dimensione intima che riguarda i sentimenti, le relazioni e le emozioni dell’essere umani e lo faccio partendo dalle mie esperienze personali, dal mio vissuto e dalla mia famiglia; è un processo spesso lungo e difficile che richiede un lavoro su di me molto profondo, ma che mi aiuta anche ad affrontare e risolvere alcuni punti dolenti. Dall’altro il mondo che mi circonda influenza molto il mio lavoro, non riesco a non affrontare alcuni temi legati alla società contemporanea, sento di avere una responsabilità al riguardo e mi pongo delle domande.
Portaci alcuni esempi dei tuoi progetti di stampo politico/sociale.
Ad esempio, in una ricerca che si chiama Percepisco ho affrontato dei temi attuali come la guerra in Siria, la questione dei Migranti e il Covid analizzando il rapporto tra estetica e coscienza critica. Partendo dal significato etimologico della parola estetica, dal verbo αἰσθάνομαι, che significa “percepire attraverso la mediazione del senso”, affronto temi complessi attraverso immagini attraenti, utilizzando l’estetica per attivare un processo di riflessione. Inoltre negli ultimi anni ho portato avanti come curatrice, insieme a Chiara Arturo, un progetto sul Mediterraneo come spazio di attraversamento e sulla condivisione come pratica artistica.
Si può vivere, oggi, di arte in Italia?
Penso che oggi sia molto difficile vivere di arte in Italia, ci sono alcune Fondazioni che finanziano progetti artistici o dei bandi del Ministero, ma credo siano davvero pochi i giovani che riescono ad accedere a questi fondi. Anche nel settore privato è difficile trovare una galleria che investa sull’artista producendo le opere. La maggior parte degli artisti che conosco fa un secondo lavoro, ma è faticoso dividere il tempo e le energie e purtroppo quello che ne risente è sempre la ricerca artistica. All’estero è diverso perché in molti paesi il lavoro di artista è riconosciuto dallo Stato.
Quanto incide l’essere donna nel tuo settore?
È diverso essere donna come lo è in molti settori purtroppo. Io ad esempio sono appena diventata mamma e questa cosa, che per me è un valore aggiunto, viene vista come un limite. Inutile dire che non c’è alcun tipo di supporto economico per me né come artista, né come libera professionista: niente maternità, niente aspettativa, niente. Se non lavoro non guadagno e basta. Sto lavorando con un gruppo di madri artiste e lavoratrici come me per far sentire la nostra voce in proposito.
Quali sono i sogni e le prospettive di un’artista come te?
Il sogno è sempre quello di poter vivere della mia arte, portare avanti la mia ricerca e lavorare alle mie opere senza dovermi preoccupare dei soldi, di avere qualcuno che creda in me al punto da investire sul mio lavoro. Questo è anche il motivo per cui ho scelto di portare avanti la professione di fotografa: quello che mi spinge è una necessità interiore e voglio che rimanga tale. Non voglio ritrovarmi a fare opere alla moda per poter vendere di più e guadagnare più soldi, non voglio dover fare compromessi su questo.
Cosa consiglieresti alle moderne Persefone che come te vivono o vorrebbero vivere di arte?
L’unico consiglio che mi sento di dare è studiare molto, lavorare sodo e non preoccuparsi troppo. Ho sempre pensato di darmi una scadenza, quando ero più giovane pensavo che se a 35 anni non avessi ancora sfondato avrei lasciar perdere. In realtà non funziona cosi, è come quell’idealizzazione che vede la felicità come una cosa astratta e lontana da raggiungere. La felicità è nelle piccole cose di ogni giorno e l’arte è la capacità che abbiamo di tradurre noi stessi: se quello che fai ha un significato per te, ti serve, ti fa stare bene, allora continua a farlo.